Pubblichiamo a seguito dell’incontro Lavoro, migranti e territori. Il lavoro come strumento di inclusione sociale e sviluppo delle comunità, organizzato da Rete Migrazioni e Lavoro in collaborazione con Cuccagna Solidale, un articolo di Andrea Membretti co-autore del libro “Montanari per forza”

All’incontro hanno partecipato due associazioni con le loro esperienze in due territori diversi:
Associazione PaceFuturo  e  Associazione Il Gabbiano

SE GLI STRANIERI CAMBIANO LA MONTAGNA.
Immigrazione e innovazione nelle Alpi

di Andrea Membretti

Bivacchi davanti alle stazioni ferroviarie, fabbriche abbandonate divenute dormitori, panchine come brande di fortuna nei giardini pubblici. E ancora: questuanti nei parcheggi dei centri commerciali, code alle parrocchie per i vestiti o per un pasto caldo. E poi la minaccia del terrorismo, il timore delle violenze. Il senso di assedio.
E’ l’immigrato straniero nelle città, e ancor più nelle metropoli come Roma o Milano, quello a cui si collega questo immaginario diffuso, amplificato dai media e ripreso dagli “imprenditori della paura”, che su questo immaginario costruiscono il proprio capitale di consenso. Sono i grandi numeri di soggetti senza volto, le concentrazioni di persone nei luoghi pubblici, le masse di profughi vaganti senza meta o parcheggiati sotto casa nostra, che ingombrano (anche fisicamente) la nostra normalità quotidiana.
Questo immaginario non è privo di fondamento. Lo straniero di città – oggi identificabile innanzitutto con il profugo – è maggioritario, frutto di politiche che hanno permesso l’ammasso di persone in grandi strutture oppure che hanno abbandonato in mezzo a una strada migliaia di individui a cui è stato riconosciuto il diritto di asilo. Ma rappresenta solo una faccia della medaglia, specialmente in un territorio come quello italiano, dove alla dimensione urbana fa da contraltare quella, geograficamente assai più rilevante, della montagna e delle valli, tra Alpi e Appennini.
Chi sono allora gli immigrati nelle terre alte? Innanzitutto si tratta dei “migranti economici”, giunti nel nostro Paese con l’intenzione esplicita di trovare un lavoro. Nei comuni delle Alpi italiane queste persone, in regola e ufficialmente residenti, sono oggi oltre 350.000 (Istat/Convenzione delle Alpi, 2014). Sebbene in parte vivano in comuni di grandi dimensioni, la maggioranza vive in piccoli centri, spesso piccolissimi, con popolazioni nettamente inferiori alle 5.000 unità. Nella sola Lombardia si rilevano 103.731 stranieri residenti in comuni di montagna, distribuiti in modo pressoché uguale tra maschi e femmine. Questi cittadini stranieri non bivaccano, non si ammassano, non vagano: sono uomini e donne, con famiglie e bambini, inseriti in economie locali che, anche e soprattutto grazie a loro, continuano ad esistere, o addirittura si rinnovano e crescono. Allevamento e pastorizia, taglio del bosco e carpenteria, edilizia e servizi di cura alla persona, manutenzione di impianti sciistici e trasporti. Qualcuno parla di “professioni etniche”: certo è che i vuoti lasciati dallo spopolamento che ha devastato la montagna lombarda negli scorsi decenni oggi sono stati, almeno in parte, riempiti. Dagli stranieri.
Non sono mancate e non mancano le tensioni, naturalmente: come si narra nel film “Il vento fa il suo giro”, di Giorgio Diritti, è difficile accettare, per chi è rimasto nelle terre alte, che qualcuno venuto da molto lontano abiti le case e recuperi i mestieri che i nostri giovani hanno rifiutato. Ma questi conflitti vengono spesso mediati attraverso le relazioni faccia a faccia, la condivisione “forzata” di spazi comuni, il tramite della fatica e della cura per “tenere su” insieme il territorio: qui permane e si rinnova quella solidarietà di tipo materiale, fortemente interpersonale, che ha sempre cementato le comunità di montagna, risorsa oggi rara nei contesti urbani.
La presenza di questi “immigrati economici” nelle nostre montagne non solo favorisce la sopravvivenza di realtà altrimenti condannate ad estinguersi ma spinge verso la resilienza comunità locali spesso tirate tra gli opposti della museificazione folkloristica ad uso dei turisti e dell’omologazione agli stili di vita di pianura. Qui, con le parole di Alain Montandon, «lo straniero evidentemente viene a sconvolgere le cose, l’immobilità, la stagnazione, l’inerzia, il marasma, il torpore, l’abbattimento, la letargia che regnano nella piccola società. Egli introduce un movimento, una turbolenza […]. Lo straniero ha un ruolo rivelatore».
Lo straniero in montagna può portare innovazione, dunque, proprio tramite il movimento. E non serve andare indietro alla grande migrazione medievale dei Walser, quando questo popolo alemanno si spostò nelle valli italiane ai piedi del Monte Rosa, portando con sè innovative tecniche agricole e costruttive. Oggi infatti sono tanti i casi sparsi per l’arco alpino in cui gli immigrati hanno innescato forme di cambiamento impreviste, occasioni di negoziazione tra tradizioni locali e usi importati: dalla gestione della pastorizia alle forme della socialità quotidiana, dalle tecniche casearie alle piccole scuole multi-etniche di montagna.
In anni recenti, poi, la montagna italiana è destinazione di ulteriori flussi immigratori dall’estero: si tratta dei richiedenti asilo e protezione internazionale. Diversi ma non troppo rispetto agli “immigrati economici”, i “profughi” sotto i riflettori sono quelli sgomberati da qualche fabbrica abbandonata oppure gli ammassati nei centri di “accoglienza” alle periferie delle metropoli: ancora una volta, si tratta di stranieri “urbanizzati”. Eppure, anche rispetto a questa nuova popolazione, la montagna fa la sua parte. Da una ricerca appena realizzata da Dislivelli (pubblicata nel volume “Montanari per forza. Richiedenti asilo e rifugiati nella montagna italiana”, di Dematteis, Di Gioia e Membretti, F. Angeli editore, 2018) emerge infatti la forte rappresentatività delle aree montane nell’ospitalità di migranti “forzati” (cioè ricollocati dal governo nazionale in comuni che hanno strutture disponibili) rispetto al totale del territorio nazionale. Sui 125.203 registrati a livello nazionale (Ministero dell’Interno, 2016) in strutture CAS (Centri Accoglienza Straordinaria) e SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), oltre il 10% ricade infatti in comuni alpini. L’arrivo e la presenza temporanea di questi “montanari per forza” è favorito anche in questo caso dai “vuoti” che caratterizzano tanti territori montani, in termini innanzitutto di edifici disponibili: alberghi, caserme, colonie, residence, sanatori. Un patrimonio immobiliare da anni inutilizzato, frutto di una “costruzione delle Alpi” legata a cicli passati del turismo, della produzione, della cura.
Spesso questi immigrati risultano posteggiati per mesi in comuni d’alta quota, in assenza di una politica nazionale coerente e a volte nelle mani di organizzazioni che speculano sul businness dell’accoglienza. Ma non mancano i casi virtuosi, in cui, superando le iniziali diffidenze delle comunità locali, l’arrivo dei migranti ha rappresentato un fattore di risveglio per il territorio. Grazie a cooperative o ad associazioni serie, e alla sinergia con gli abitanti storici, si sono sviluppati progetti di turismo sostenibile, si sono riattivate economie di prossimità, si è favorito il recupero e la messa in sicurezza del territorio rispetto al dissesto idro-geologico, si sono salvati edifici altrimenti in malora, riconsegnandoli alla collettività tutta.
L’accoglienza fatta di piccoli numeri e di rapporti diretti, anche in territori che soffrono la crisi economica e lo spopolamento, mostra dunque come lo straniero, montanaro per scelta o per forza, possa essere fattore di ripensamento complessivo dei rapporti sociali, di riscoperta del “fare comunità”, oltre che di innesco di nuove forme di economia, frutto dell’ibridazione tra culture e bisogni differenti. Anche in questo senso lo straniero può avere un effetto rivelatore: quello di far riscoprire a tutti noi le risorse e le opportunità che offrono le nostre montagne e che troppo a lungo abbiamo dimenticato.