La popolazione straniera in età da lavoro, cioè quella di età compresa tra i 15 e i 64 anni, nel 2017 in Italia ha sfiorato i 4 milioni (su circa 5 milioni di stranieri soggiornanti nel Paese), cioè poco più del 10% del totale dei residenti in età attiva, confermando il profilo sempre più multietnico e multireligioso del mercato del lavoro italiano. I dati ripresi e commentati all’interno del Rapporto ISMU ci dicono che in Italia sono stranieri poco più del 12% delle forze di lavoro, il 10,5% degli occupati e circa il 14% dei disoccupati.

In particolare, su una popolazione complessiva di occupati pari a poco più di 23 milioni, gli stranieri sono circa due milioni 423mila (800mila Ue e 1 milione 622mila extra-Ue).

Nel 2017 l’occupazione degli stranieri è cresciuta dello 0,9% rispetto al 2016, ma si tratta dell’incremento più basso osservato nell’ultimo quinquennio (tra il 2013 e il 2016 la crescita media è stata infatti del 3,3%). Inoltre, per la prima volta dopo diversi anni, l’occupazione italiana ha registrato un tasso di incremento (1,2%) superiore a quello degli stranieri, anche se nel complesso il tasso di occupazione della popolazione straniera resta comunque superiore a quello degli italiani, circostanza che fa del nostro Paese un caso unico tra i principali paesi europei di immigrazione.

Sebbene gli stranieri continuino a registrare un tasso di disoccupazione più elevato di quello degli italiani, il fenomeno della disoccupazione registra, per il terzo anno consecutivo, una riduzione, questa volta peraltro decisamente più significativa sia in valori assoluti (oltre 30.000 disoccupati in meno) sia in termini percentuali (-7,1%). Tale evoluzione ha certamente a che vedere con la forte contrazione negli ingressi di migranti economici (tenuto conto che l’effetto dei recenti ingressi di richiedenti asilo ancora non si è reso visibile, se non in minima parte, nelle statistiche relative al mercato del lavoro).

Se però si guarda alla tipologia dei posti di lavoro occupati dagli immigrati, i dati più recenti documentano l’ulteriore consolidamento dell’etnostratificazione del mercato del lavoro italiano. Oltre a risultare sovra-rappresentati in settori – come il lavoro domestico e la piccola impresa – dove notoriamente più alto è il rischio di licenziamento, gli stranieri sono massicciamente concentrati nei profili operai (76,3% degli occupati stranieri), e a bassa qualificazione. Essi, inoltre, continuano a essere fortemente coinvolti nel fenomeno dell’overqualification, com’è emblematicamente dimostrato dal fatto che solo un quarto degli stranieri in possesso di una laurea “Stem” (ovvero in discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche), normalmente la più spendibile sul mercato del lavoro, svolge una professione coerente col proprio background formativo; nel caso degli immigrati extra-UE, quasi uno su due risulta addirittura occupato in una mansione low-skill. Tutti questi fattori concorrono a far sì che il salario medio degli stranieri sia inferiore a quello degli italiani del 35%: un esito del tutto coerente con i caratteri di un modello di integrazione che “premia” sostanzialmente l’iper-adattabilità e l’economicità del lavoro immigrato.

Oltre all’analisi dei dati più recenti, il Rapporto ISMU dedica quest’anno una particolare attenzione alla sostenibilità, nel medio lungo periodo, del modello italiano di integrazione. Un problema col quale sarà sempre più necessario confrontarsi a fronte di una dinamica migratoria composta, in misura nettamente prevalente, da flussi per ragioni di ricongiungimento familiare e di protezione internazionale: nel corso del 2016 (ultimo anno disponibile), solo uno sparuto 5,7% dei nuovi permessi di soggiorno è stato rilasciato per motivi di lavoro (nel 2007 erano il 56,1%).

A destare preoccupazione è, in particolare, la crescita della componente inattiva: nel 2017 gli stranieri inattivi in età lavorativa (ovvero tra i 15 e i 64 anni) sono un milione e 149mila. Ad alimentare il fenomeno sono soprattutto le donne immigrate extra-europee, in particolare quelle meno istruite (così come avviene anche per le italiane); più in particolare le donne provenienti da alcuni paesi che registrano tassi di inattività davvero allarmanti: Egitto (88,9%), Pakistan (86,7), Bangladesh (80.2%), India (76,4%), Tunisia (70,2%). Situazioni che spesso si associano a un’altissima incidenza di giovani NEET, un fenomeno che configura scenari per il futuro particolarmente preoccupanti.

Ma è soprattutto sulla sfida dell’inclusione lavorativa dei rifugiati e richiedenti asilo che il Rapporto ISMU dedica quest’anno una particolare attenzione, evidenziando la necessità – resa ancor più impellente dal processo in corso di riforma del sistema Sprar – di gestire due fondamentali trade-off: 1) La necessità di scoraggiare il ricorso improprio alla richiesta di protezione vs la necessità di contenere i costi dell’accoglienza, favorendo la rapida inclusione lavorativa dei richiedenti asilo; 2) L’esigenza di favorire l’autonomizzazione di rifugiati e richiedenti asilo vs il rischio di vederli risucchiati nel «cattivo lavoro» e di comprometterne lo sviluppo professionale (e con esso il contributo alla crescita del Pil e alla fiscalità generale). Questa sfida sta sullo sfondo delle buone pratiche per l’inclusione inserite nel Repertorio che proprio in questi giorni è stato reso visibile sul sito della Fondazione ISMU: http://www.ismu.org

In definitiva, l’analisi presentata nel Rapporto ISMU dimostra come gli scenari demografici che si stagliano all’orizzonte della società italiana fanno dell’immigrazione una risorsa strutturale per i processi di turnover delle classi d’età attiva e di finanziamento del sistema pensionistico. Ma occorre essere consapevoli di come la valorizzazione di questa risorsa non è né automatica né scontata. In termini ancora più espliciti, il mercato del lavoro certamente rappresenta – per gli immigrati come per tutti i cittadini – il principale ambito di inclusione e di partecipazione alla creazione del benessere collettivo. Ma esso può anche facilmente trasformarsi in strumento di esclusione individuale e di compromissione della coesione sociale. Per quanto possa apparire lapalissiano, vale la pena ricordarlo.